martedì 12 novembre 2013

è stato più o meno così che

Già, è stato così, che sono entrata in un posto dove ci sono dei tipi che ti chiedono quanto li tagliamo? e io senza neanche pensare alla pioggia di capelli neri che avrei visto pochi istanti dopo ai miei piedi ho detto tanto, tanto così. E poi sono uscita da questo strano posto che non sapevo più cosa farmene dell'elastico che avevo al polso, quello nero che quando piove e me lo dimentico a casa maledico me stessa e tutto il calendario in fila. Ed è stato più o meno così che ho deciso di cambiare esistenza. Non ho neanche pianto e quasi mi veniva da ridere per strada mentre tornavo a casa e pioveva e io non avevo bisogno di niente perché tanto i capelli li avevo lasciati da qualche altra parte ma la testa invece pare che ce l'avevo ancora.

sabato 28 settembre 2013

Il cortile


L’affaccio è sul cortile interno da cui si vede un trapezio di cielo ritagliato male, tutto sgangherato e spento. La luna non ci viene mai a trovare qui e non si è capito bene il vero motivo della sua latitanza perpetua. Quando scostiamo le tende della cucina entra una luce sbiadita che non arriva neanche a disegnare le ombre. Sembra una pozza bianca di luce piatta. Se osserviamo il cortile oltre le tendine sporche appare un campo di battaglia abbandonato dai soldati, una trincea vuota che si assomiglia alle nostre vite. Qualche ciuffo di verde spunta dal cemento ai lati del muro, sopravvivenze lontane che ogni tanto ci ricordano i nostri passati e tutti quei futuri abortiti dal vento che tira. Sulla colonna c’è il gambo secco di un fiore selvatico e la sua agonia, piegata verso il basso, compare a monito per l’ultimo abbraccio interrotto che ci siamo lasciati alle spalle e ancora brucia di calore. Si raffredderà e svanirà il suo odore stantio, neanche una traccia rimarrà, ricoperto in breve tempo da altri fiori morti e altri abbracci persi. Questo cortile ci sembra il deserto del cuore, appena sta su tra tombini dismessi in una domenica di settembre. Ci sono alcune porte che danno l’accesso alle cantine, una volta erano latrine. L’intero edificio doveva essere signorile, per avere i bagni interni. A guardarlo adesso, come insetto schiacciato su un vetro, fa venir voglia di dormire. Come la sua muffa silenziosa, dura a morire e brutta tanto quanto i nostri sguardi che cadono a terra a cercare qualche briciola di speranza sfuggita alle tovaglie dopo il pranzo. Questa galera dei giorni, questa prigione degli anni che sempre vorrebbe finire, mostrare una svolta tra i mattoni, una via di fuga di sole e che poi continua ad aspettare la notte che arriva puntuale. E non si ricorda mai di avvisare.

sabato 7 settembre 2013

Con questo mese sono 8

Solo entrata nella tua stanza prima di partire.  Non ricordavo il colore dei muri. Sul tuo comodino vuoto non c erano più le medicine. Ho aperto un pochino la finestra e ho tirato su le tapparelle.  È entrata una luce gialla. Dovevo restituirti alcuni libri della tua libreria degli autori francesi. Proust. In alto a destra. E ho visto quella collezione di dischi.  Me l avevi tenuta nascosta? Non me li avresti mai prestati se te li avessi chiesti ma ormai non puoi farci nulla...così ti ho preso rachmaninov e chopin.  Che una volta mi piaceva ballarli. E ti ho guardato in fotografia. Stavi li, forse pensavi. E con questo mese sono otto anni dall ultima siringa di morfina. La stanza ha iniziato a tremare come ci ho pensato. .anche il lampadario oscillava. Il terremoto ho pensato e invece era il mio cuore. Che ti cercava e ti trovava sempre lì sulla strada per il mare a dirmi come si dice sinistra in francese.

giovedì 5 settembre 2013

i giorni di settembre

Le mosche le api i gabbiani a pesca.
L odore di pesce morto,
Le lumache spiaggiate in decomposizione.
Le alghe l insalata di mare la melma.
I sassi mummificati gli scogli stanchi.
L acqua che sembra che non c'è appena fa rumore.
Il silenzio delle onde il sole sbiadito.
La lenta fine di un fazzoletto usato.

martedì 3 settembre 2013

-Giochiamo a dadi?
-Tira tu!
-Tiro io?
-Si si tira tu!
-E se poi vinco?
-Vorrà dire che avrò perso io.

giovedì 22 agosto 2013

Rame

'Con tutte quelle ferite attorno agli occhi dobbiamo andare a rifornirci di rame, così li mettiamo lì sul muro e ricominciamo a contare il tempo passare', hai detto mentre andavamo oltre le case popolari. Che anni prima ogni volta che mi veniva da piangere mi prendevi per mano e andavamo dagli zingari a chiedere di Napoleone. Era uno zingaro vecchio che capiva solo dialetto e romanì. Vendeva del rame bellissimo, lo piegava lui anche quando aveva cent'anni e mi sembra che io fossi piccola, appena camminavo, e lui già aveva cent'anni e mi aveva regalato il primo braccialetto. Di rame. Che ogni tanto pulivo e ogni tanto perdevo nel mare. è successo che poi un giorno Napoleone è morto e noi siamo andati tutti al suo funerale che gli zingari avevano chiamato la banda e due cavalli neri, e una carrozza bellissima, tutta ornata di rame. E quante donne a piangere che parevano le madonne del suo capezzale. Questa mattina tutto era uguale, pensavamo di trovarci suo figlio a piegare le conche. E invece non c'era nessuno, ci ha detto Zi Peppe che per avere quel rame dovevamo viaggiare. Ci ha detto dove e tu mi hai guardato meglio le ferite e 'si, è proprio il caso di partire'. Abbiamo attraversato tutto il Molise, il silenzio in macchina era un lungo dialogo. è partita una canzone che parlava di una persona sola nell'universo, almeno tu, e le ferite hanno ripreso a sanguinare. 'Devi cambiare continente, tu qui non ci puoi più stare'. Non mi vedevi piangere dall'ultimo funerale. Mi hai cambiato la canzone e mi hai messo il tuo cd preferito la voce del padrone. E quando abbiamo passato il fosso del diavolo mi hai pure raccontato di quando lo avevi riportato a casa, quell'album ed eri ancora all'università ed eri così strano per me. Poi ci siamo fermati che dovevi rullare il tabacco e siamo ripartiti che qualche altra canzone mi ha messo il singhiozzo. Dopo due ore eravamo sulla via del ritorno con tanto rame nel cofano, addosso, e Napoleone seduto sul sedile di dietro. 'La serenata te la posso cantare solo io' e io ti ho detto certo, papà.

giovedì 15 agosto 2013

Ti avrei voluto portare

Ti avrei voluto portare erano le sei dei granchi addormentati
al mare dove volevo portare i tuoi occhi azzurri e assonnati
a sbriciare le onde tra i raggi appena nati.
Non al mare degli ombrelli belli e colorati, ma quello degli scogli a respirare
 tra pescatori stanchi ti avrei voluto portare
al mare dei trabocchi infranti.
Al mare che a te non piace quello pieno di sola luce.
Ti avrei voluto portare al mare, dove c’è dio
ma tu dormi la mattina, ti svegli tardi e non ti piace il mare mio.
Così sono andata sola a spiare un posto all’ombra dove avresti potuto sedere
 e, se volevi, fumare.
Sono tornata che ancora volevi dormire
poi al momento giusto ti sei svegliato,
sei andato al bar e ti ho sentito ridere di gusto.

Ti avrei voluto portare in biciletta dove ho scoperto un bosco,
c’è un’asina che raglia che si chiama libera e bella
e un contadino con una lambretta
gialla, fa un olio forte come il mare che ti avrei voluto portare.
Farti vedere il sole su delle piccole foglie morte
qual è il suo colore, mentre tu giocavi a carte.
Così sono andata sola a quel ruscello
a guardare il contadino che stava lì col suo asinello
e quando eri ubriaco con l’acido allo stomaco
hai pisciato nel lavello poi sei uscito a pesca
con la tua canna ed un cappello.

Ti avrei voluto portare nei miei libri
negli scaffali pieni nelle pellicole dei film,
quelli belli seri con i colori bianchi e neri.
Nelle mie tele tra i pennelli sporchi,
proprio lì avrei voluto portarti,
ma tu eri a pesca a litigare con un’esca.
Così sono andata sola a vivere nelle pagine
a tratteggiare i ricordi sulla tela mia
e contare gli occhi in un cinema di periferia.

E quando ti ho detto dove ti volevo portare
eri stanco e sei andato a letto,
quando mi hai detto “buona giornata”

ero stanca già addormentata.

mercoledì 14 agosto 2013

Una pietra sopra

Sei morta che nemmeno me ne sono accorta.
E sei tornata giusto qualche volta.
Da allora nessuno mi conforta.
Che quando poi ti abbiamo sepolta
ti avevo messo una rosa bianca
e un angelo a farti compagnia
così venivo quando ero stanca
a dare l'acqua alla rosa mia.

Mo ti guardo solo in fotografia.
E non mi parli.

Ormai sei proprio andata via?

lunedì 12 agosto 2013

Classificazione di Schneider, Kurt, amico Kurt.

Era una casa, il tetto il cielo. Le persone luoghi. Quanto buio che sembrava di essere ciechi, certe volte. Si parlava da soli, con i marciapiedi. Oppure sentirsi amati se una vecchia ti rivolgeva la parola per strada due giorni di seguito. Le istruzioni nel primo cassetto a destra, dopo il semaforo quello dietro il supermarket. L'acqua era il tempo, si beveva a sorsi. Le finestre così crudeli, accese di risate certe volte, come gioielli. Si aveva l'idea che tutto fosse prezioso, là fuori. Là fuori, nelle case, dove finivano i muri. Ci contavamo gli occhi. Mai una volta a trovarne uno in più. Eravamo tanti, in un corpo solo, tutti a parlarci, sperando di vincere e finire nella bocca con le nostre parole. Eravamo tanti, sì, in quella sola testa che sembrava una cassa da morto. Uscire non se ne parlava, dentro e fuori erano la stessa cosa, quando un corpo ha la città come casa e noi quel corpo come rifugio. Lo sapevamo di essere pazzi, ma mai nessuno ci aveva creduto. E spesse volte la pazzia sembrava cattiveria. L'aria densa, come panna, da respirare con fatica. BZD e caffèllatte. Mangiare ti fa male alla salute, Kurt. Amico Kurt, ci avevi dato quel bel nome. Ci chiamavano pure, da dentro i tombini quando la marea era alta e ci si poteva pescare a bolentino. Tutta quell'acqua, era il tempo, si beveva a sorsi. Il buio ci beveva a sorsi. Così.
Stretti per paura di esistere.

Era il periodo in cui eravamo tutti ancora morti. E non si sa perché alla fine siamo risorti.