L’affaccio è sul cortile interno da
cui si vede un trapezio di cielo ritagliato male, tutto sgangherato e spento.
La luna non ci viene mai a trovare qui e non si è capito bene il vero motivo
della sua latitanza perpetua. Quando scostiamo le tende della cucina entra una
luce sbiadita che non arriva neanche a disegnare le ombre. Sembra una pozza
bianca di luce piatta. Se osserviamo il cortile oltre le tendine sporche appare
un campo di battaglia abbandonato dai soldati, una trincea vuota che si
assomiglia alle nostre vite. Qualche ciuffo di verde spunta dal cemento ai lati
del muro, sopravvivenze lontane che ogni tanto ci ricordano i nostri passati e
tutti quei futuri abortiti dal vento che tira. Sulla colonna c’è il gambo secco
di un fiore selvatico e la sua agonia, piegata verso il basso, compare a monito
per l’ultimo abbraccio interrotto che ci siamo lasciati alle spalle e ancora
brucia di calore. Si raffredderà e svanirà il suo odore stantio, neanche una
traccia rimarrà, ricoperto in breve tempo da altri fiori morti e altri abbracci
persi. Questo cortile ci sembra il deserto del cuore, appena sta su tra tombini
dismessi in una domenica di settembre. Ci sono alcune porte che danno l’accesso
alle cantine, una volta erano latrine. L’intero edificio doveva essere
signorile, per avere i bagni interni. A guardarlo adesso, come insetto
schiacciato su un vetro, fa venir voglia di dormire. Come la sua muffa
silenziosa, dura a morire e brutta tanto quanto i nostri sguardi che cadono a
terra a cercare qualche briciola di speranza sfuggita alle tovaglie dopo il
pranzo. Questa galera dei giorni, questa prigione degli anni che sempre
vorrebbe finire, mostrare una svolta tra i mattoni, una via di fuga di sole e
che poi continua ad aspettare la notte che arriva puntuale. E non si ricorda
mai di avvisare.
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