Non ricordo con precisione il momento esatto in cui abbiamo deciso di trasferirci a Lisboa per condurre questa doppia vita senza senso. Non sono neanche così certa che l'idea sia venuta da me. Deve essere stato un istante lentissimo di cui non si possono ricostruire le dinamiche e che è oramai irrimediabilmente perduto.
C'è da dire, però, che ricordo bene quando davanti ad un caffè di Rimini abbiamo stretto il compromesso: la settimana lavorativa in Italia e il far nulla sul Tago. Aerei prenotati con questa scadenza da qui a un anno. Forse può sembrare strano ma vi assircuro che non è molto diverso di qualsiasi vita divisa tra la casa ed il lavoro.
Quando sono qui da sola, poi, come oggi che mi ha preso l'influenza al Rossio, ecco che riesco a lavorare meglio, con questo silenzio così portoghese che pare canti anche da zitto, in una casa che non ci vive nessuno, odora di pipì di gatto, ma risplende di azulejos.
Non lo avevo mai fatto, di venire qui e pulire. Insomma il patto era che qui non si deve far nulla, lasciare tutto fuori e contemplare, come gli eremiti, noi siamo venuti in esilio a Lisboa. Poi oggi complice la malattia, i microbi bronchiali e l'assistenza medica così vaga...ho deciso di farlo. Si ora è tutto pulito, ma non mi sento felice. Come se avessi lavato un pezzetto qualsiasi di mondo destinato a tornare nella melma, come se avessi solo tentato di rallentare lo scrorrere del tempo, qui dove il tempo non c'è. Sono persino andata fino al frigorifero aprendolo alla ricerca di un po' d'acqua, dimenticando di averlo accuratamente adibito ad armadio nei mesi scorsi. Così per prender tempo e non sfigurare davanti a me stessa ho preso un paio di calzini dal vano verdure e li ho calzati con non curanza.
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